Una sessualità non identitaria
Marco Focchi (AME, membro SLP/AMP)
Il reale del sesso è qualcosa che per i teorici del gender si può contraddire: anziché restare incastrati nella rigida divisione dell’umanità tra maschile e femminile – dove solo il fortunato Tiresia ha potuto fare l’esperienza di cosa si prova nell’uno e nell’altro sesso, mentre per noi comuni mortali l’inesistenza del rapporto sessuale impedisce di mettersi nei panni dell’altro – si può sognare un nomadismo sessuale che non si limita a due posizioni, e i più spinti tra gli studiosi di questa nuova disciplina – nata agli inizi degli anni Novanta con il libro di Judith Butler Gender trouble – hanno contato fino ad ora più di trecento posizioni possibili. LGBT (acronimo di Lesbiche, Gay, Bisessuali, Trans) è solo una sigla d’avvio, che rimanda a una lista indefinitamente aperta, cui si possono aggiungere connotazioni a piacere. Ogni comunità sessuale rivendica il proprio diritto all’esistenza quando la modalità di godimento assurge a vessillo identitario.
La scintilla di questa grande espansione, il Big Bang della galassia sessuale, sono i moti di Stonewall, nel giugno del 1969. In quella data i frequentatori di un locale per omosessuali, lo Stonewall Inn del Greenwich Village a New York, si ribellano alle frequenti visite della polizia, e invece di consegnare i documenti, come viene loro ogni volta intimato, cominciano a lanciare pietre, e la rivolta prosegue per giorni. Il terreno è politicamente già preparato: ci sono stati i movimenti di contestazione a Berkeley, si è incendiato il maggio parigino, a breve esploderà l’autunno caldo in Italia. La rivendicazione di libertà di parola, l’affermazione di una cultura giovanile, le lotte operaie, la rivoluzione sessuale sono le premesse perché sia il momento per gli omosessuali di farsi ascoltare. Ma in un breve giro di anni ci si domanda: perché solo gli omosessuali? E i movimento omosessuale diventerà presto il movimento LGBT.
L’Italia è subito ricettiva di questi fermenti: il FUORI!, prima associazione del movimento di liberazione omosessuale in Italia nesce nel 1971. Nella prima metà degli anni Ottanta nasce l’Arcigay, una delegazione della quale viene anche ricevuta, nel 1990, dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Le istituzioni in Italia non sono mai state particolarmente ostili alle varianti sessuali. Pochi anni dopo l’unità nazionale, nel 1889, il codice Zanardelli aboliva ogni disparità di fronte alla legge tra eterosessuali e omosessuali. Dovremmo fare il confronto con il trattamento riservato per esempio a Oscar Wilde in Gran Bretagna nel 1895, e con il fatto che fino al 1962 in tutti gli stati degli USA la sodomia era considerata reato e punita con reclusione e lavori forzati. Tanto per intenderci l’omosessualità è stata depenalizzata in Svizzera nel 1942, in Grecia nel 1951, in Inghilterra nel 1967, in Germania Ovest nel 1969, in Austria nel 1971, in Spagna nel 1979.
Anche per quanto riguarda la riflessione teorica sull’argomento in Italia vediamo presto nascere punti decisamente interessanti. Mi riferisco in particolare al lavoro di Fabrizia Di Stefano, studiosa transessuale delle soggettività contemporanee, che prende appoggio in modo interessante sul lavoro di Lacan e che utilizza la categoria del queer per decostruire quella del gender.
Basta confrontare lo sfondo culturale e ideologico di Judith Butler, interamente appoggiato alla sociologia e al pragmatismo, che non fa posto al soggetto, ma solo a interazioni di individui nello spazio sociale. L’idea è quella di un sistema deterministico di norme che assegnano il ruolo, maschile o femminile, ma che in questo meccanismo ci siano delle smagliature, degli intoppi, dei punti d’arresto. La macchina sociale insomma non funzione alla perfezione, e questo permette delle linee di fuga, consente un’evasione dai ruoli in cui altrimenti gli individui sarebbero imprigionati nella ripartizione sessuale codificata in modo binario. L’apertura del gender esprime le possibilità che si aprono a scapito di un determinismo produttore di stereotipi. Significativamente infatti nella Butler non c’è posto per un soggetto in grado di prendere decisioni, o di costituirsi attraverso delle decisioni, ma soltanto la prigione dogmatica di un sociale dalle cui smagliature può sempre sfuggire qualcosa. Le identificazioni sessuali diventano così la veste immaginaria che oblitera l’assenza del rapporto sessuale, di cui per la Butler non è neppure questione.
Diversamente stanno le cose per Fabrizia Di Stefano, che anzi mette una sua intervista sotto l’esergo della frase dove Lacan afferma che l’amore è ciò che supplisce all’assenza di rapporto sessuale. Per la Di Stefano l’assenza di rapporto sessuale è un punto di partenza, e nel suo libro più importante, Il corpo senza qualità, ne presenta una sorta di estensione: l’inesistenza del rapporto sessuale non è solo qualcosa che possiamo trovare tra uomo e donna, ma partendo dal corpo sessuato vediamo che non c’è rapporto, ma incontro tra due godimenti, qualsiasi modalità essi assumano. I due godimenti, dice, stanno l’uno di fronte all’altro, non implicati e soli.
C’è un’acuta consapevolezza, nella Di Stefano, della differenza tra il desiderio, che lega, che si rivolge all’altro, e il godimento, che isola. Questo le permette di far posto al soggetto che la Butler ignora: “La singolarità del soggetto resta un passaggio ineliminabile del pensiero contemporaneo, se permane come il tracciato pensato e pensabile di un movimento di disidentificazione”. L’interessante è infatti che, incentrandosi sul soggetto, lo spazio del pensiero queer non cade nel rischio delle politiche identitarie aperte dal gender. Se la gender theory presuppone infatti una costruzione plurale e alternativa all’attribuzione originaria del sesso, la teoria queer si spinge oltre e ridefinendo con mescolanze e con alterazioni libere dalle grandi narrazioni sessuate i suoi stessi connotati attributivi, recide anche dal soggetto ogni possibilità di appartenenza seconda o identitaria. Se cioè per la Butler la fuga dalla norma, che avviene non per scelta ma per disfunzionamento meccanico, conduce a nuove identità, pur alternative, per la Di Stefano si producono piuttosto delle singolarità disidentificate e autogenerate come elementi interni al molteplice del desiderio evocate dal nome stesso queer, che significa per l’appunto, nel linguaggio corrente, strano, obliquo, bizzarro, anche sospetto, ovvero fondamentalmente non identificato.
Se lo sfondo ideologico latente della Butler, ben messo in luce da Eric Marty nel suo libro e nel suo dialogo con Miller, è il neoliberismo americano che si esprime in un linguaggio riconoscibilmente aziendale in cui hanno posto l’empowerment, l’agency, l’enabling, per la Di Stefano lo sfondo culturale è completamente diverso e la presenza di Lacan in questo è dichiarata e riconosciuta. Scrive infatti nella premessa del suo libro: “In questo viaggio ho incontrato gli autori che più mi hanno accompagnata nella riflessione, Lacan innanzitutto. Non sono un’analista e il mio rapporto con l’opera rimarchevole che porta questo nome non può avvalersi né del crisma di un albo professionale, né tantomeno dell’autorità conferita da una pratica che, per essere detta clinica, è a contatto diretto con le sofferenze dell’umano. Quanto a queste ultime ho potuto seguire solo il filo di quelle che sono state e sono le mie. Ciononostante, il corpo a corpo con Lacan, che dura da molti anni, non avrebbe potuto occupare, nell’economia dei miei riferimenti, un posto marginale”. Direi che si apre da qui una possibilità di riflessione che ci permette di prender posizione sul tema del queer in un modo che non si scivoli nelle secche dell’identitarismo e che faccia valere i temi della psicoanalisi in uno spazio sociale dove il rapporto con la sessualità non è più evidentemente quello del tempo di Freud.