Cybersex o lettera d’amore?
Carla Tisi (Partecipante alle attività SLP)

Nell’ultimo anno il confinamento e la costrizione all’uso della tecnologia digitale hanno provocato probabilmente un aumento dei soggetti a rischio dipendenza da Internet, non solo legata alla compulsione per i giochi virtuali o gli acquisti on line, ma anche al sesso virtuale. Come tutte le forme di dipendenza anche la cybersex addiction provoca segregazione e solitudine, infatti l’aspetto più drammatico di questa patologia è la cancellazione di un partner in carne e ossa, ulteriore manifestazione della difficoltà contemporanea di fare legame.  L’uso della rete per raggiungere una soddisfazione sessuale è detto cybersex, termine che non indica solo il guardare materiale pornografico, ma acquistare prodotti o contattare persone che a pagamento propongono il sesso virtuale. E non va confusa la dipendenza sessuale che può poggiarsi alla frequentazione di siti per incontri in presenza con il cybersex, dove la presenza fisica dell’altro non esiste.
Proprio navigando nel Web è possibile imbattersi in un articolo di E. Carraro, che sostiene la maggior sicurezza del cybersex rispetto agli incontri reali in presenza. Ci sarebbe da preoccuparsi solo nel caso in cui l’utente cada in una dipendenza, la cybersex addiction appunto, di cui, scrive
l’autrice, “allo stato attuale non si può ancora parlare di vera e propria patologia non essendo tale dipendenza inserita all’interno del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5; APA, 2013)”[1]. Dunque, una patologia esiste solo a partire dalla scrittura del suo nome su un manuale diagnostico. L’articolo continua: “L’utilizzo di Internet a scopo sessuale non è necessariamente qualcosa di negativo o pericoloso. L’avvento della rete ha di fatto portato con sé numerosi aspetti positivi rispetto alle esperienze sessuali che le persone possono fare.”[2]
È allarmante questa posizione nei confronti del sesso virtuale, pratica che cancella la presenza del partner, seppure occasionale, in un’epoca in cui agli algoritmi, che condizionano e guidano le nostre esistenze, occorre opporre il discorso, cioè il legame, e promuovere un uso della tecnologia a favore dell’umanità e non a favore del suo controllo. Aspetto molto ben sottolineato da M.H. Broussse, nel suo recente intervento alla Biennale di Torino 2020, “l’influencer è il rovescio dello psicoanalista”. Ormai è chiaro, infatti, che gli algoritmi dei sistemi di vendita on line, tendono a ripetere una azione dell’utente, anche se fatta solo per sbaglio, in modo tale che se si visita un sito una volta sarà il sistema stesso a riproporre questa opzione senza che il soggetto effettui alcuna scelta. Dunque, il sistema agisce al di fuori del controllo dell’utente, adulto o minore che sia, sempre più separato dal suo desiderio, sempre più schiacciato da leggi di mercato.
E gli adolescenti? Sono proprio loro i nativi digitali a soffrire di più del distanziamento fisico, della solitudine, della scuola senza corpo. Molti si nascondono, scatenando le lamentele dei docenti dietro la web-cam spenta: sottrarsi allo sguardo del docente o emergenza opaca e senza voce di una domanda: ”Mi verrai a cercare?”

Ma la web-cam spenta è comunque inquietante perché rivela all’adulto il fallimento relazionale che in classe era coperto dalla presenza fisica, spesso ridotta a un numero, in quanto il corpo era lì ma il Soggetto non occupava alcun posto nel discorso. Il corpo in presenza era in realtà denuncia all’adulto di assenza di interesse, di desiderio, di legame sociale. Lasciato a se stesso, l’adolescente “confinato” sperimenta per la prima volta gli effetti di godimento causati dall’attrazione per l’altro, o percepisce l’orrore della trasformazione di un corpo che non si accorda con l’intima identità sessuale, o ricerca modelli che possano risolvere dubbi e interrogazioni sul sesso. Perché l’adolescenza è l’età dell’esule e la web-cam spenta è rifiuto o richiesta a seconda di come la si interpreta. Se si accoglie lo spegnimento della video camera è possibile, invece, che qualcosa del Soggetto si riveli, qualcosa che in presenza era stata indicibile: un corpo vissuto come disagio, un’identità in disaccordo col nome proprio, la disperazione per la fine di un amore. Il silenzio irreale che segue accoglie un ”Grazie per il tuo coraggio” rilanciando il dialogo e il confronto di classe.  Del resto, il vuoto relazionale spinge gli adolescenti a cercare risposte lì dove, come in uno specchio magico, qualcosa sempre risponde: Internet.

Se prima gli utenti del cybersex erano prevalentemente adulti ora l’età di questo tipo di consumatori si sta abbassando in un pericoloso disannodamento della parola d’amore che può trasformare il sesso in sessualità inventata all’interno di un legame, in opposizione alla mortifera meccanica genitale. Invece proprio l’immagine di genitalità crude è ciò che risponde al bisogno pulsionale dell’adolescente in questa crescente desertificazione di parola che cancella il versante della domanda.

Come sostituire al cybersex, giostra di godimento, la scrittura del desiderio di niente? Forse un tentativo di lettera è quella ferita che Valentina incide sul corpo: “immervaleg”. Cosa vuol dire questa parola? “Mia figlia è pazza ecco cosa significa”, afferma la madre della ragazza, che sottovoce sussurra: “Vuol dire: sempre Valentina e Giuseppe”. Un fuori codice che risponde all’incessante domanda inevasa: ”Mi ami?”, un’invenzione che blocca i tentativi di suicidio. Il “non cessa di non scriversi” si trasforma in una scrittura e Valentina trova il suo “per sempre” (immer) nel delirio della fiaba d’amore con Giuseppe, che in realtà non esiste.

Tra virtuale cybersex e fantasmatico delirio d’amore è ancora il Reale che si fa strada, il Reale del sesso che avanza nelle solitudini mute di silenziose derive giovanili senza l’Altro.

[1] E. Carraro, “Dal cybersex alla cybersex addiction
[2] Ibidem