Godimento femminile e meccanica quantistica[1]
Sergio Sabbatini (membro SLP/AMP)
Una bambina di due anni e mezzo riempie d’acqua di mare (mer) il secchiello, lo svuota ai piedi della madre incinta e poi ricomincia. La bambina ha un obiettivo preciso: svuotare la madre (mère). “Arrivata a questo punto della mia vita – scrive la donna che ci affida il ricordo – posso dire che se allora non ho constatato il mio fallimento nello svuotare il mare/madre è perché non ho mai smesso di cercare di farlo! “[3]
Così è il vuoto che attraversa il libriccino di Marie-Hélène Brousse, Mode de jouir au féminin, la cui mole è inversamente proporzionale alle dimensioni, direbbe l’abate Terrasson. Sullo sfondo le parole di Lacan a François Cheng, che declinano con il vuoto l’orizzonte della psicoanalisi:
“Il nostro mestiere è di dimostrare l’impossibilità di vivere, al fine di rendere la vita minimamente possibile. Lei ha vissuto la faglia estrema, perché non allargarla ancora, fino a identificarsi ad essa? Lei che ha la saggezza di comprendere che il Vuoto è Soffio e che il Soffio è Metamorfosi, non troverà pace finché non darà libero corso al Soffio che le resta, una scrittura, perché no, bucata!” [4]
La presenza del vuoto pervade la vita: e illumina la fine analisi, la posizione dell’analista e il godimento femminile. Incontra la logica del per tutti e la logica del non tutto: nel lungo cammino che porta Lacan dall’impasse di Freud – il continente nero della sessualità femminile – alla tensione tra godimento fallico e godimento femminile. Il punto di arrivo è il quadro della sessuazione di Ancora, le equazioni di Maxwell della psicoanalisi. Vorrei dire che al centro del libro c’è quel frammento d’infanzia, che suscita la tenerezza e la meraviglia del lettore, un brano di psicoanalisi vivente, che insegna. Ma non c’è un centro del libro, ma tanti poli: la genitorialità nell’epoca dell’evaporazione del padre, la posizione dell’analista, la fine analisi, il paradigma del gender, la pulsione di morte. Concordo con chi ha detto che non è un libro, è un dispositivo, una macchina che non lascia indenne il lettore. È una testimonianza di psicoanalisi pura, intorno al tema del vuoto e dell’incompletezza.
Non è facile parlare del godimento femminile, gli equivoci pullulano; per sua natura non si farebbe afferrare, stringere, in quella logica rigorosa del concetto su cui si regge la civiltà occidentale. È almeno quel che si ripete. Ma è proprio così? Non ci sono delle scansioni della scienza che, da almeno un secolo, senza scardinare il sapere consolidato ne hanno segnato i limiti e relativizzato il campo di applicazione, aprendo nuovi spazi? In logica e in matematica con Brouwer e Gödel, in fisica con Einstein e poi Heisenberg, Born, Dirac e altri ancora. Restare fedeli all’insegnamento di Jacques Lacan non vuole forse dire interrogare e meditare quei momenti critici del pensiero dove emerge, “come nodo radicale” il desiderio umano?[5] È esattamente l’operazione che ha fatto l’autrice, un ‘incontro epistemico’ con la fisica contemporanea.
Marie-Hélène Brousse si muove sul terreno che Jacques-Alain Miller ha coltivato, anno dopo anno, fino a L’Uno-tutto-solo: il godimento in quanto tale è il godimento femminile. Il godimento femminile è il godimento non edipico, al di fuori dell’impianto divieto/permesso dell’Edipo e si presenta come evento di corpo, in parte estraneo all’ordine del discorso. Il femminile non coincide con il materno, con l’essere biologicamente femmina e nemmeno con il genere, che è un’identificazione, un effetto di significante. L’uomo e la donna sono solo dei significanti, scrive Lacan: ogni essere parlante è un corpo parlante, un LOM, che sceglie di mettersi sul versante maschile o femminile. C’è un principio di indeterminazione: il femminile non è il privilegio del LOM biologicamente donna, è supplementare e non complementare al maschile e riguarda non-ogni LOM.
Marie-Hélène Brousse chiama eterotismo il godimento femminile come godimento Altro[6], G(A). L’eterotismo, scrive, è un godimento-evento di corpo, che buca il significante, non localizzabile, tra infinito e vuoto. E poi presenta con cura, con garbo, un distillato prezioso della sua esperienza di analista, quindici casi, e di analizzante; schegge cliniche che sono epifanie del godimento femminile, colte nella loro singolarità e nello stesso tempo capaci di suggerire delle ipotesi più ampie e pur sempre parziali, contingenti. Esperienze di disobbedienza, di solitudine, di silenzio, dove il silenzio, nel quadro psicoanalitico, è già un accostare il non-tutto.[7]
In un sorprendente disegno[8], che prende le mosse da Lacan[9], l’autrice dà una forma logica a queste espressioni di eterotismo, avvolte a un vuoto che abolisce la differenza tra soggetto e oggetto. Sono epifanie che si compongono come modi differenti di barrare il soggetto: il segreto, nell’a-nonimo come cancellazione del nome, il nascosto come cancellazione dell’immagine, lo sparito come cancellazione delle coordinate spaziali, temporali e anche dell’Uno. Una sparizione che si fa godimento della barra; qui l’autrice incontra il posto dell’analista, che Jacques-Alain Miller indica come lo spazio di un Più-nessuno[10]. Un vuoto operativo.
E la meccanica quantistica? Ha già fatto il suo ingresso, come principio di indeterminazione, non località dell’oggetto, campo, onde gravitazionali, buco nero. Temi portanti della fisica contemporanea, che ispirano la riflessione epistemica degli psicoanalisti, così come la meccanica classica ha influenzato la metapsicologia di Freud.
Ma perché il vuoto? La fisica ha sperimentato che il vuoto dello spazio-tempo non è così vuoto, si flette come una smisurata gelatina. E poi c’è la materia oscura, ci sono i buchi neri. Una singolarità che si presenta come un vuoto di materia e un pieno di energia, un reale ancora non compreso. Un irrefutabile vuoto produttivo.
E poi l’oggetto. L’oggetto a risponde al dualismo onda-particella come dualismo causa-mira: causa il desiderio inconscio che abita le onde della parola e rivela nella cura il buco nero del godimento, nei cammini di lalingua.