IL COLORE DEL SESSO
Federica Facchin (partecipante alle attività della SLP)
Ancora a proposito di Andrè Gide [1], in risposta al bel testo di Fabio Galimberti su l’Hommelettre (https://convegno2021.slp-cf.it/2021/02/04/hommelettre/) e con un’attenzione particolare al “trio di maghe” che ha segnato il destino di Gide, a cominciare dalla madre e dalla questione clinica del caso [2]: “Che cosa è stata per quel bambino lì la madre?” [3]. Una domanda che, posta così bene, implica tanto la singolarità di Gide, quanto quella della madre. In un passaggio delicato del suo intervento sull’Être mère, Christiane Alberti ci ricorda che l’essere madre si coglie una per una, dal lato della testimonianza singolare, dell’esperienza irriducibilmente soggettiva in cui il significante madre sempre si declina [4].
La singolarità della madre di Gide consiste nel suo essere una vedova nera, che avviluppa il figlio in una rete di amore totalitario (“è tutta per lui”). Un amore senza desiderio, appiattito sul dovere e sui suoi comandamenti. Questa dissociazione tra amore e desiderio ci illumina su quale oggetto un figlio possa essere per una madre, e si situa all’origine della degradazione della vita amorosa di Gide nella sua versione omosessuale.
“La madre resta a contaminare la donna per il piccolo d’uomo, il resto consegue” [5]. Nel caso di Gide, la madre orienta la scelta di Madeleine quale oggetto d’amore unico, di sublimazione mistica, e dunque l’accesso di Gide all’Altro sesso, che per lui avviene attraverso una porta stretta. Qual è il sesso degli angeli?
La madre di Gide è una figura intera non ravvivata dal colore del sesso [1]. Un bel modo per dire della forclusione del femminile [6] che la ammorba, con effetti di devastazione sul figlio. Ne consegue l’impossibilità di accedere all’amore per l’heteros che il femminile rappresenta, l’assenza del vuoto da cui scaturisce il desiderio [7]. Una madre omosessuale, dunque, perché in lei e nella sua vita l’Altro sesso non trova un posto.
Così, il desiderio della madre nella sua significazione resta problematico. La madre di Gide è mortificata, in lutto perenne, ed è intorno a questa assenza di colore che si struttura il rapporto privilegiato di Gide con la morte, sua temibile accompagnatrice [1]. Gide è un soggetto dall’aria funebre (non a caso viene soprannominato Ci-Gide, che suona come ci-git, qui giace) [2]. La donna angelicata, asessuata, quale amore unico è il particolare effetto di contaminazione della donna che la madre ha prodotto per quel bambino lì. Un oggetto d’amore imbalsamato, un oggetto di charme mortifero. Ne risulta un matrimonio bianco, come se ne vedono molti anche nella contemporaneità—lo sa bene chi lavora nel contesto della procreazione medicalmente assistita.
Madeleine ha a sua volta un inconscio e un legame particolare con il suo povero padre. La madre di Madeleine, zia di Gide, tradisce il marito mettendo in scena un godimento fuori legge che lascia la giovane piangente, inginocchiata in preghiera. Gide accorre in suo soccorso e in quell’istante vota la sua vita alla difesa di quella fanciulla che non desidera. Comincia così a tessere la sua rete di ragno a cui Madeleine, ad un certo punto, dice sì.
Da parte sua la zia, di bianco vestita, è un mediatore che, partendo dalla madre di Gide, lo conduce a Madeleine, introducendo la dimensione clandestina del desiderio che Gide vive nel suo “innamorarsi” di ragazzini, anche se il suo erotismo resta masturbatorio: phi gioca la sua partita da solo [2]. Su questo versante è comunque attivo un fallo effervescente, si potrebbe dire un godimento fuori legge dell’organo nella forma di un diniego della castrazione. Nell’amore imbalsamato per Madeleine si trova invece il fallo morto.
In questo scenario, la sposa compie un atto che fa obiezione, un atto da “vera donna”, perché— tradita—brucia la cassetta delle lettere scaturite da questo amore, lettere che sono quanto Gide ha di più caro, sono una parte di lui, un sostituto del figlio (o forse è Gide stesso ad essere figlio di queste lettere). È un atto degno di Medea: “Povero Giasone…” [8].
Madre e donna, con i rispettivi godimenti, non sono—come ricorda Marie-Hélène Brousse—né complementari, né antinomiche [7]. La madre è colei che ha e che si situa dal lato de LOM, neologismo che Lacan inventa per designare LOM di base, che parla e che ha un corpo [9]. La donna è colei che non ha, soprattutto non ha nulla da perdere e per questo può arrivare a sacrificare persino i suoi figli, quando è una “vera donna” come, appunto, Medea. L’atto di Madeleine, come quello di Medea, toglie all’Altro la possibilità di ogni completezza, di essere un tutto. Lo barra. Per questa ragione, una donna può essere per un uomo un cattivo affare… Eppure, il caso di Gide ci mostra quanto il vuoto che il femminile rappresenta sia vitale. Rispetto alla madre, il femminile la svuota rendendo possibile l’inscrizione del bambino nel mondo della vita—e non della morte, com’è stato per Gide. Nel sociale, il femminile, proprio in quanto heteros per eccellenza, fa circolare discorsi di vita che, al contrario dei discorsi che uccidono, sono anti-segregazione. Ecco la funzione politica del femminile, anche nelle istituzioni.
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[1] J. Lacan, Giovinezza di Gide o la lettera e il desiderio, in Scritti, vol. 2, Einaudi, Torino 1974.
[2] J.-A. Miller, “Sul Gide di Lacan”, in Logiche della vita amorosa, Astrolabio, Roma 1997 (pp. 115-161).
[3] J. Lacan, Giovinezza… cit., p. 747.
[4] C. Alberti, “Essere madre”, in Appunti n. 130, Marzo 2015, pp. 9-10.
[5] J. Lacan, Televisione, in Altri Scritti, Einaudi, Torino 2013, p. 526.
[6] M.-H. Brousse, Mujeres y discursos, RBA Libros, Barcelona 2020.
[7] M.-H. Brousse, Mode de jouir au féminin, Navarin Éditeur, Paris 2020.
[8] J. Lacan, Giovinezza… cit., p. 760.
[9] J. Lacan, Joyce il Sintomo, in Altri Scritti, Einaudi, Torino 2013, p. 561.