Da un film muto: “DOBBIAMO PARLARE”
Omar Battisti – (Membro SLP/AMP) 


…il fatto che il linguaggio parli della morte non prova affatto che ne abbia una qualche conoscenza.
È il limite, molto recondito, al quale egli accede solo tramite il reale del sesso
[1].

Queste parole di Lacan, dopo aver letto questo passaggio, sono state in giacenza per un po’ di tempo ad accompagnare la routine quotidiana in modo lampante, con fugaci incursioni ed altrettante veloci sparizioni. Questo fino a quando hanno risuonato diversamente in seguito ad uno scambio di mail sul lavoro bibliografico in preparazione al convegno SLP “Il reale del sesso” e soprattutto alla visione del film The Artist.
Vedere questo film è stata un’esperienza di interrogazione dello spettatore. Esperienza che per me ha fatto risuonare in altro modo quelle lettere in giacenza, dando un inedito risalto alla formula lacaniana “non c’è rapporto sessuale” a tre livelli.
A livello immaginario, la scena racchiusa in quest’immagine di una donna che si abbraccia al manichino dell’uomo che non c’è, rompe il mito della metà della mela con cui si spera di fare Uno, e provoca quasi una vertigine seguente alla deformazione del corpo che produce: dove finisce il corpo della donna e dove inizia il corpo dell’uomo? Detto in altro modo: dove finisce il corpo dell’Uno ed inizia il corpo dell’Altro? Un artificio scenografico evidenzia per me qui il versante perturbante di un limite non fissato nelle stelle, nel corpo e nella natura, ma effetto di un incontro tra lalingua e l’immagine del corpo.
A livello simbolico, l’esperienza di vedere questo film mette in primo piano che non si sente parlare nessun attore, tanto meno la voce umana appare sulla scena, ed il suono è separato dal senso, introdotto solo dalla scrittura di alcuni detti che si staccano dal parlare degli attore per prendere primo piano sullo schermo.
C’è anche un reale di quest’esperienza. Ovvero se il film muto si serve solo del suono, della musica e dello scritto per far seguire una narrazione, direi che fa parlare chi lo guarda, dà voce a chi lo guarda. Lo spettatore non è comodamente seduto a godersi uno spettacolo da cui è escluso, ma qualcosa fa vibrare ciò che Lacan nel Sem XXIII chiama “funzione di fonazione”, ovvero il fatto che si abbia da dire qualcosa, che si sia spinti a parlare.
Oltre a questi tre registri c’è un dettaglio che passa inizialmente inosservato ma nello scorrere del film acquista una portata cruciale, specie in un passaggio nodale della trama, non solo rispetto al senso ma anche come tessitura di ciò che avviene: il protagonista non si separa quasi mai dal suo fedele cane, che ha una somiglianza quasi spiattellata con il famoso cane che troneggia sui vinili del tempo, marchiati: “La voce del padrone”. Non c’è qui un rimando a qualcosa dell’estrazione della voce?
Infine, una scena del film evidenzia in modo spettacolare il posto di ciò che Lacan chiama réson, scena in cui campeggia sullo schermo la frase: “dobbiamo parlare”.
Questa frase “detta” dalla moglie al protagonista, arriva in un momento della pellicola che gli dà una portata sovversiva. Dopo aver fatto i conti con l’inatteso e sconvolgente emergere del sonoro e la fine del film muto, (per la prima volta nel film si sente un suono associato all’evento da cui è prodotto, lo spettatore si con-fonde con il protagonista sorpreso da questa emergenza), il protagonista torna a casa e noi con lui sentiamo il rumore degli oggetti in scena, non più una musica che accompagna l’interpretazione dell’attore. Il pubblico vuole sentire parlare l’attore, questo compare scritto sulla scena, e il protagonista rifiuta quest’emergenza, che trova oscena e volgare. Giunto a casa, regna il silenzio, mentre legge il giornale, arriva la moglie. Il detto, “Dobbiamo parlare”, arriva proprio in questo frangente.
Come non leggere qui una profonda ironia che viene gettata su questa frase, da sempre associata all’emergere di una crisi nella coppia, che segna qualcosa che non va, di cui si fa portatrice una donna necessitata all’amore di un uomo che invece gode da solo con qualcosa che lo esclude dall’incontro con l’Altro. (Anche in scena il protagonista è solo a leggere il giornale, con a fianco il suo fedele cane, quello della voce del padrone).
Qui però questa frase è fatta risuonare sullo sfondo dell’introduzione del sonoro nel cinema e della fine del film muto. Questo dà un accento che dicevo ironico, da un lato, ma da un altro lato alza di un semitono, mette un diesis, sull’indissolubile e imprescindibile non rapporto tra sesso e linguaggio, sull’esilio dell’umano dalla natura e dall’istinto, da un programma fisso che funziona per tutti uguale. L’unica cosa che vale per tutti rispetto al sesso, è un non funziona di portata universale, a cui ciascuno sopperisce con un sintomo che è singolare.

[1] J. Lacan, Improvvisazione. Desiderio di morte, sogno e risveglio in La Psicoanalisi 67, Astrolabio, Roma 2020, p. 12.