Due dipinti due veli un vuoto
Céline Menghi – (Membro AME SLP/AMP) 


Il reale del sesso! La locandina del Convegno evoca il contenuto della valigetta del serial-killer che vi depone il pezzo di carne: non uno qualsiasi, ma il genitale femminile – la chose. Nella saturazione di immagini della nostra epoca, spicca il ritaglio/dettaglio prelevato sulla fotografia dei buchi neri: corpi celesti, regione dello spazio che attrae qualsiasi cosa nelle sue vicinanze e che, solo tramite la fisica e la matematica, si afferra. Se voleva fomentare un titolo di per sé crudo, il ritaglio/dettaglio ci è riuscito: senza velo. Si evoca il buco del non sapere; l’abisso di das Dingschifezza […] estratta dal mare […][1] che ci riguarda; l’orrore del femminile, ma anche le teorie quantistiche sulle quali prende appoggio Jacques Lacan per approcciare il godimento femminile, che dal godimento fallico non dipende in alcun modo[2] e travalica anatomia e genere. Quando dico che non c’è rapporto sessuale, avanzo molto precisamente questa veritàche il sesso non definisce alcun rapporto nell’essere parlante[3]. Il reale del sesso è il fatto che non c’è rapporto per via dei godimenti diversi. Il genere e l’anatomia sono una questione di significante, di detti. Via dalle logiche binarie! Il sesso, come la morte e la donna, costituisce un inciampo, una trappola nell’armonia – ne sa qualcosa Freud, il quale, nel sogno dell’iniezione di Irma, non si arresta e fonda in quell’ombelico del sogno il presupposto del reale lacaniano.

La donna è mistero, meraviglia, fonte di declinazioni escatologiche della lingua. È richiamo fatale e orrorifico, origine di disprezzo e, questa voltra, di scatologiche declinazioni della lingua: dall’insulto che la assale, la oltraggia nel pudore, fino alla sua riduzione a pezzo di carne, trofeo di un tutto irraggiungibile a cui lei non corrisponde mai del tutto, quanto più del femminile la concerne.
Quel ritaglio/dettaglio che evoca il genitale femminile mi ha condotto al tableau X di Gustave Courbet, a cui nel 1866 il baritono dell’Opèra di Parigi Jean-Baptiste Faure darà un nome: L’origine du monde, dipinto dello scandalo e del velo – On ne peint pas de son pinceau le plus délicat et le plus sonore l’interieur de Mlle Queniault de l’Opéra, scrive nel 1871 Dumas a George Sand. La mademoiselle in questione è una ballerina, l’amante del diplomatico turco-egiziano Khalil Bey che ha commissionato l’opera a Courbet. Decaduta, quindi, l’idea che la modella fosse l’amante di Courbet, l’Irlandese Jo Hifferman dalla chioma fulva. Del resto, che contrasto tra la chioma fulva e i peli pubici! con beneplacito della famigerata legge da postribolo…
La potenza del dipinto si concentra sul ventre che ospita quell’interieur e che nel 1889 fa dire al collezionista Edmond de Goncourt, che non ama particolarmente Courbet: Davanti a questa tela che non avevo mai visto, devo fare ammenda e rendere onore a Courbet: quel ventre è bello come la carne di un Correggio. Come afferma Lucio Villari, Bernard Teyssèdre aveva ragione nel definire L’origine[:] l’Olympia di Manet fecondata dal Cristo Morto di Mantegna[4]. Dal Correggio al Mantegna, dunque, la carne e il sacro. La donna!
Se il Cristo non ha perso la testa, ma è morto e incarna la castrazione, Lorigine, invece, è senza testa, ma viva. Oltre al sacro, però, li accomuna la prospettiva. Lo sguardo sorge nel punto di fuga della prospettiva: stravolta nel Mantegna, converge al centro, là dove in Courbet converge e al contempo diverge. Quanto al sacro, il cui etimo greco è: vero, reale, spazia da ciò che avvince a ciò che è da onorare, da ciò che è maledetto all’inviolabile, fino alla parte del corpo della vittima. Ma lasciamo il Cristo Olimpya.
Ancor Prima che Lacan facesse scorrere la cache commissionata ad André Masson sul dipinto di Courbet, L’origine, che con il suo fascino e bellezza si presta a incarnare orrore e attrazione fatale, giaceva pudicamente girata contro una parete, o nascosta tra le chincaglierie di un rigattiere, o gelosamente conservata dal suo proprietario ungherese per ben 42 anni, tolta la pausa della guerra.
Ma cosa nasconde Lacan con la cache, se comunque la bellezza, il bello è l’ultimo velo sul reale? Nasconde un velo? Colpisce una cosa: la cache di Masson assomiglia a un ricalco sbiadito, alla ripresa dall’alto di una palude senza confini, una Maremma – a cui peraltro si affibbiano gli epiteti al femminile più volgari e maledetti – percorsa da sottili sentieri a perdere tra pozze sparse, con al centro, lievemente asimmetrica, un’ombra che richiama il sesso. La cache evoca il terrain vague: terra desolata, terreno libero, discarica, terreno abbandonato. Evoca il vuoto. Richiama una dimensione elastica dello spazio che ne ricopre un altro, che è, nella fattispecie, percorso da un taglio, una fessura.

Gli architetti, che si sono ispirati all’idea di città continua di Italo Calvino – il mondo è ricoperto da un’unica Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome all’aeroporto[5] – si sono mossi intorno al concetto di terrain vague: forme non convenzionali ed elastiche, destrutturate e fuori dalle logiche dell’urbanistica tradizionale, secondo quello che Koolhaas chiama sprawl: espansione/estensione; architettura insolita, che produce un senso di instabilità, secondo Libeskind, Hadid, Isozaki. Dal XX secolo in poi il riferimento sono le forme topologiche, ma si interrogano anche le possibilità di una Architettura quantica.

E se Lacan avesse giocato con un doppio velo? il velo del bello come ultima frontiera difronte all’orrore – L’origine -, da un lato, e, dall’altro un velo che vela, sì – la cache -, ma al contempo rivela un terreno nuovo, vague, appunto, che non si smaremma mai del tutto, così come non si svuota il mare/madre, per riprendere un passaggio preciso di M.-H. Brousse, quando ci conduce a un vuoto che non è il niente, non è vuotamento totale. È un vuoto che c’è, femminile, da cui origina energia, improntato ai concetti di vuoto, di buco nero e di onde gravitazionali[6], non esenti dal riferimento, caro a Lacan, al Tao, e che ci permette di avvicinare la radice del non-tutta[7].

In fondo, l’esperienza di un’analisi è la scommessa, per chi vi si lancia, di giocare con un doppio velo, di passare da un piano a un altro che vi scorre sopra, di esplorare, al di là di un’architettura strutturata secondo una logica binaria e che mira a comporre il tutto, un terrain vague elastico, non-tutto definito, che permetta di incontrare e trattare con il reale del sesso mediante una propria e instabile mappa accondiscendendo, almeno un po’, a un vuoto che c’è.


[1] J. Lacan, Il seminario VII. L’etica della psicoanalisi [1959-1960], a cura di A. Di Ciaccia, Torino, Einaudi, 2008, p. 296.
[2] J. Lacan, Il seminario. Libro XIX. …o peggio [1971-1972], a cura di A. Di Ciaccia, Torino, Einaudi, 2020, p. 99.
[3] Ibidem, p. 7.
[4] L.  Villari, L’insonnia del NovecentoLe meteore di un secolo, Milano, Bruno Mondadori, 2005, p. 188. Gli altri riferimenti sono tratti da: B. Teyssèdre, Le roman de l’Origine, Paris, Gallimard, 2008.
[5] I. Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1982.
[6] Cfr. M.-H. Brousse, Mode de jouir au féminin, Paris, Navarin, 2020, p. 24. [Trad. nostra], p. 24.
[7] J. Lacan, Il seminario. Libro XIX. …o peggio [1971-1972], op. cit.