Lawrence. Si può scrivere il sesso?
Nadia Fusini (Accademica, anglista, scrittrice – Docente If )

 Si può scrivere il sesso? Tornando alla lettera, l’etimologia della parola pornografia nel greco antico mette in gioco la πόρνη(pòrne) = che identifica la prostituta + γραφή, (graphè) =  ovvero il segno, lo scritto, e dunque l’atto di scrivere di prostitute, o rappresentare prostitute. Pòrne viene a sua volta dal verbo greco περνημι (pèrnemi)  che significa vendere, vendersi, in senso lato, e dunque prostituirsi.
Nell’uso comune, volgarmente per pornografia  si intende una  rappresentazione  – a mezzo film, immagini, giornali, scritti – il cui contenuto è finalizzato all’eccitazione. Diverso è l’erotismo, of course,  dove rappresentazioni di tipo sessuale più o meno esplicite, vengono, diciamo così, sublimate in forma di arte, e cioè consumate, delibate, in altro modo che nel godimento breve dell’eccitazione fisica. Dell’organo.
Naturalmente la distinzione può farsi sofistica. E cioè, eccessivamente sottile, cavillosa. Come sapete i sofisti, seppure a loro modo saggi, più che alla verità, cavillano e sono loro stessi interessati al mercato, al successo e ai soldi.
Ora e qui oggi vi farò l’esempio di qualcuno che provò a “scrivere il sesso”- vi parlerò per l’appunto di un libro ‘osceno’, ‘scandaloso’. Off scene, che fu messo al bando. Ovvero, L’amante di Lady Chatterley – che D.H. Lawrence scrisse in tre versioni. Onde non incappare nella censura.  Perché appunto non fosse considerato ‘pornografico’.
Nel marzo del 1926 Lawrence è in Italia, prima a Spotorno, vicino Genova; poi in aprile a Scandicci, vicino Firenze. Da lì annuncia all’amico Kotelianski che sta scrivendo “il romanzo più sconveniente che sia mai stato scritto”. Non è “pornografia”, però, spiega: è una  affermazione della “realtà fallica”. E proprio a Scandicci lavora a tre separate versioni.
Pur nella differenza, in tutte e tre le versioni a tema è, appunto, la potenza fallica, la vis e la virtus, la forza, la potenza – in questo senso la virtù – dell’amore sessuale pieno. Potremmo anche intendere,  il trionfo di Eros.
È un tema che Lawrence ha già sfiorato, o ha addirittura messo al centro di un romanzo come in Donne in amore (1920). È un labirinto in cui si è già inoltrato nel Serpente piumato (1926). Ma con Lady Chatterley sente di spingersi sempre più lontano, molto lontano. Anzi, è “il più avanti che sia mai andato”, dice: qui tocca la “realtà fallica”.
O almeno, scrive spinto da questo ideale: vuole rendere alla relazione sessuale umana la sua virtus, la sua vis, la sua potenza, il suo valore. C’è qualcosa di prezioso lì che l’ideologia protestante e puritana (e se per quello anche quella cattolica con il suo mito della castità), svaluta; invece c’è della realtà  preziosa. Vuole celebrare, appunto, la potenza del Fallo – e intende proprio la verga, il pene, assunto nella sua trasfigurazione simbolica… E cioè, il fallo in quanto scettro e bastone, simbolo del potere religioso e politico.
Ricordo che nel 1917 Lawrence ha scritto La verga  di Aronne –  pubblicato nel ’22, dove il protagonista della storia, Aaron, notate il nome, è un dirigente sindacale nelle miniere di carbone del Midlands inglese, intrappolato in un matrimonio infelice, il quale desidera, è pieno, trabocca di Eros. È anche un appassionato di musica, e suona il flauto con talento, seppur da dilettante. Poi un giorno lascia moglie e figli, vuole diventare un vero e proprio musicista professionista. E viene a Firenze, dove comincia a frequentare vari circoli intellettuali e artistici, e a occuparsi di politica, e sempre qui intreccia una relazione con una signora aristocratica. Il libro si conclude con un’esplosione, dovuta al lancio d’una bomba (non si capisce bene se sono gli anarchici o i fascisti),  che distrugge lo strumento di Aaron, e con lo strumento, il flauto, le possibilità di sviluppo della sua personalità. Notate, i fascisti distruggono la verga!
    Flautovergascettrobastone – sono letterali, addirittura infantili le allusioni. Inutile che le spieghi, credo. Mentre insisto nel ricordarvi che la verga è uno dei bastoni di Aronne, fratello di Mosè, nella Torah. Dove si afferma che il bastone di Aronne, insieme alla verga  di Mosè, è dotato di straordinari poteri. Poteri di fertilità.
In modo se volete ingenuo Lawrence riprende questa simbologia,  e ne avvolge il pene – sì, ammanta l’organo maschile di romantiche associazioni; lo vede  “bello e tenero e fragile.” E tenta di “scriverlo” –  scrivere della sua potenza d’organo trasfigurato, ma una potenza materica, vitale, materiale.  Ci prova, dicevo, con Madame Chatterley.
Gli piace molto la definizione di “romanzo fallico”, e ripete:  il suo è “il romanzo della coscienza fallica contro la coscienza mentale di oggi”. Certo, gli  schizzinosi, i delicati di stomaco e di viscere avranno da ridire, perché sono spaventati dalla “realtà fallica”. Che è invece perfettamente sana e normale. E non è la stessa cosa del “sesso”: il sesso di questi tempi è “una cosa tutta di testa”, protesta.
Proprio perché con le sue finissime antenne di scrittore fiuta le contraddizioni della sua epoca, è consapevole che il suo romanzo sarà una “bomba”, esploderà nel “cranio di Mammona”, il dio della ricchezza oggi imperante, e dei suoi seguaci, che non hanno altro ideale che il denaro. Mentre per Lawrence non è  il denaro a dare valore a un uomo. È il “fallo”, che gli dà valore.
In questa chiave si dovranno leggere le varie versioni della Lady Chatterley, al cui centro, c’è in realtà  la domanda amletica: che cos’è un uomo? Contro la  prepotenza del denaro, avversando il triste “gioco di Mammona”, la lady e il suo amante rivendicano la virilità del corpo virile dell’amante che dona piacere all’amata. Niente amore provenzale qui, qui l’uomo è uomo è ‘uomo’, perché dà piacere alla ‘donna’. E a se stesso nel mentre che ama la donna.
La confessione d’amante di Lawrence non ha affatto, ripeto, un timbro provenzale; ha semmai il timbro radicale di un corpo d’uomo (e di donna, se per quello), che interamente si incarna nella sua propria realtà fisica, carnale. Che non c’entra con le identità di genere, c’entra semmai con Eros che sempre le confonde. “C’è troppo della donna in me”? si chiede addirittura quest’uomo. “Non sono così gli altri uomini?” E la sua donna lo rassicura: “Devi andare orgoglioso della tua sensibilità e del fatto che hai un po’ di buone qualità femminili”.
Interessante – notate: Lawrence è convinto, è certo, e lo predica con vigore, che a definire l’uomo,  non serve più la categoria di ‘eroe’. La catastrofe della guerra ha annientato quel concetto, il concetto di ‘eroe’ è obsoleto. Un uomo non è un uomo, perché è un combattente, o un leader. La coppia leader-seguace, capo-suddito, servo-padrone, non funziona più; è un numero vecchio. Dietro quell’idea stereotipa c’è l’idea e l’ideale militare in quei tempi  – siamo negli anni ’20 e ’30- che a Lawrence ripugna. Giustamente. La gente è stufa di ogni forma di militarismo. “Miles non è più un nome per un uomo” scrive Lawrence a un amico.
Una nuova relazione, piuttosto, si dovrà suggerire tra uomo e uomo e uomo e donna, non del genere – io conduco, tu segui, io comando, tu obbedisci… Giocata intorno al potere, al comando… Una relazione che avrà un altro nome: tenerezza. Sì, tenerezza tra uomo e uomo, e tra uomo e donna… Non  a caso, Tenerezza avrebbe voluto intitolare la terza e ultima versione del romanzo intitolato a Lady Chatterley.
Nella realtà storica, nelle vicende storiche in parte già in atto, in parte che sarebbero esplose in quegli anni, il termine ‘fallico’ – con il suo corredo ‘fascista’, ‘machista’, non si coniugherà affatto con la ‘tenerezza’.
Mentre Lawrence lo porta lì. Lawrence è una specie di Zarathustra, è un profeta in anticipo sui tempi; il suo pensiero lo separa dal resto degli uomini. Così si sente: separato, set apart.  In esilio in questo mondo. It’s destiny, dice. È destino. È il suo destino.
Del resto, lo scrittore è un essere separato, lo separa dal mondo il suo talento. Il suo dono lo strappa al corpo dell’umanità, lo segrega. Lawrence soffre a sentirsi “tagliato fuori”, ma è così. È forzato a essere essenzialmente “un eremita”, come scrive a un amico piscoanalista, Nicholas Trigant Burrow – il 13 luglio 1927. Non si possono avere “relazioni umane”, se si è scrittori. Questo è il punto.  È “una cosa devastante”, ma è così. Il primo dovere dell’artista è la fedeltà al proprio daimon.
Lawrence si sente  un profeta, una voce nel deserto. Il deserto del suo isolamento. Che condivide però con la sua donna, e cioè Frieda. Non può fare niente, senza una donna al fianco. Alla lettera: lui non può vivere senza una donna al fianco: la donna che ama, spiega, lo mantiene in linea diretta con l’inconscio, altrimenti sarebbe perduto.
Amerebbe essere legato agli altri, alla società, e invece è solo, ed è sempre stato solo. “Io non riesco ad appartenere a qualcosa, un club, una società, un circolo” spiega ancora a un altro amico. Viaggia perché è in fuga e alla ricerca. In fuga dai mali della società in cui è nato e in cerca di un altro mondo. E proprio alla fine dei suoi viaggi che l’hanno portato in New Mexico e altrove,  scrive le tre differenti versioni del romanzo, di cui vi parlo, che potremmo anche leggere come una sorta di epilogo della storia delle sue fughe e delle sue ricerche. Lady Chatterley’s Lover è un libro bello e triste, molto triste. Come fu del resto l’esistenza di Lawrence, segnata dalla sofferenza fisica e dall’esilio.
Il romanzo venne accolto male. Malissimo. L’incomprensione fu totale. Il libro dove si celebrava la vita, la sublime bellezza di Eros, fu definito ‘osceno’. In tutta onestà e sincerità Lawrence credeva che la consapevolezza umana avesse bisogno che si spalancassero le porte sulla camera oscura degli ‘orrori’ del sesso. Bisognava liberare la coscienza, la mente, la psiche dalla paura del corpo, dal terrore della sua innata sensualità; era salutare quell’operazione. Sì, Lawrence voleva scioccare, ma lo shock era parte della terapia. Faceva così per curare i suoi simili, perché, ne era convinto, la rimozione ammala…
E invece lo accusarono di sporcare il linguaggio. Lui risanava la lingua della tribù e loro lo attaccavano. Mi ingiuriano, rifletté, perché temono le parole; perché a certe parole, come “cazzo”, “fica”, “scopare”, “fottere” – è lui che parla-  “la gente castrata reagisce con associazioni mentali di panico,  come di fronte  a un che di sporco, impuro”. Ma la parola “merda” non puzza, la parola “piscio” non sporca,” spiegava. ‘Merda’ è una parola innocua. Se se ne fa un tabù, allora diventa pericolosa! Così ragionava lui.
E predicava ai suoi lettori: solo una trasformazione della coscienza vi porterà a intendere che il mio romanzo rivela il bene della tenerezza, non il male dell’oscenità. La tenerezza ci vuole, la tenerezza… Ci vogliono la tenerezza, la fiducia nel corpo, nella sua libertà e bellezza, per stare bene. Alla salute si giungerà grazie alla liberazione dai tabù che circondano il corpo. Mentre scriveva, gli capitò di leggere le memorie di Casanova e rimase incredulo, scosso; usare l’amore a quel modo, sì che era blasfemo!
Si dovrà riconoscere che per molti versi l’utopia di Lawrence è fallita. Sì, la censura del suo libro in Inghilterra è stata revocata, nel 1960, in molte parti del mondo la  repressione sessuale s’è di fatto alleggerita, la bellezza del corpo nudo è riconosciuta, ma la liberazione non si è  affatto volta alla sacralità del sesso, piuttosto alla sua definitiva reificazione.
Sì,  certo: si scrivono e si dicono oggi senza imbarazzo tutte quelle parole – “cazzo”, “fica”, “merda”, “scopare”, “fottere”- che provocarono tanto scalpore quando il romanzo uscì. Ma quelle parole che ora compaiono allegramente in tanti libri e giornali e show televisivi non hanno acquisito l’aura, né la valenza magica, spirituale, divina, che Lawrence aveva in mente. Sono diventate piuttosto particelle inerti che ritmano un discorso esausto,  dove si sedimenta una specie di funzione fàtica della lingua, che batte dove il dente duole. E in realtà battendo dove il dente duole, tradisce la malattia mortale della comunicazione.
Invece, quando usa quelle parole Lawrence vorrebbe resuscitare  una specie di paradiso perduto. Una specie di lingua adamica dove le parole sono semplici e pure. Sacre e segrete. Mentre il male è nell’eufemismo, dove chiaramente la passione si svende all’intelletto, la parola si stacca dal sangue e dalla carne e si consegna al gioco dell’equivalenza. Una buona società dovrebbe saper conservare alle parole la loro semantica purezza, ma la storia è un’altra, e Lawrence lo sa bene e ne patisce. Non solo non gli si riconosce l’intenzione di una purificazione lessicale, e spirituale, cui ambisce. Ma appunto, si condanna la sua opera innocente come fosse oscena.
E quindi, per rispondere alla domanda, si può scrivere il sesso? La risposta è no.
Se Lawrence scrive e riscrive Lady Chatterley tre volte, è perché non riesce a far sentire nella lingua il corpo, il suo mistico godimento. Perché non riesce a risvegliare la “coscienza fallica”. E lo capisce e s’accora, e profetizza che questo si darà solo grazie alla rigenerazione del paese, della sua amata e odiata isola.
Constance, ovvero Lady Chatterley, è anche questo: è la bella addormentata Inghilterra che “aspetta il gros baiser di un principe fallico”.
Non a caso il tono del romanzo è apocalittico, perché apocalittica è la teoria che lo sostiene. E misterico lo sviluppo del contatto tra la lady e l’uomo dei boschi, o il guardaboschi. C’è bisogno di un passaggio iniziatico all’iperrealtà del corpo mistico. A tutti gli effetti la storia della lady e del suo amante fauno è un’iniziazione e una rinascita.
Da un certo punto di vista, Lawrence è un ingenuo. Chi capisce tutto, come sempre in amore,  è la donna. In questo caso Lady Lawrence, e cioè Frieda, la moglie, che scrivendo la prefazione al romanzo, nel 1944 avverte: “I francesi hanno l’amour.”  E spiega: “mio marito, Lawrence, è un puritano. Solo un inglese puritano avrebbe potuto scrivere un libro così. Gli americani coi loro veloci e comodi divorzi, i popoli mediterranei con le loro Penelopi che aspettano fedeli Ulisse, non avrebbero mai potuto concepire un libro del genere. Mentre gli inglesi, e in particolare modo i protestanti, e ancora più in particolare i puritani, i non-conformisti tra di loro (alla cui genia appartiene Lawrence), hanno una concezione sacra dell’amore matrimoniale. Dell’amore sessuale. Basta leggere la lettera di San Paolo ai Corinti, per capire. Tenendo a mente che l’educazione protestante al matrimonio si basava sulle indicazione paoline, mille volte ripetute nei manuali di preparazione al  sacramento.
La preoccupazione di Paolo verso i fratelli di Corinto è che non cedano alle tentazioni di Satana. E proprio per questo devono concedersi il sesso. “Mi piacerebbe che foste tutti come me, cari fratelli,” confessa il santo, e intende dire “casti”, ma sa che è chiedere troppo. “Forzarsi alla castità può esporre alla tentazione, perciò vi dico,” continua saggiamente, “se non vi sapete contenere, allora sposatevi. Dio vi ha dato un corpo non per negarlo, ma piuttosto perché possiate goderne nell’indissolubilità con l’anima. E dunque il marito compia il suo dovere verso la moglie, e ugualmente la moglie verso il marito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito. Allo stesso modo anche il marito non è il padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie.” In questo reciproco spossessamento, l’uno e l’altra possono conoscere nel congiungimento dei corpi un bene, una gioia, un godimento che frutta nel dono dei figli, nel sollievo dalla concupiscenza, nel conforto dell’amicizia. Nel riparo dalla solitudine.
Nella sua essenza, il sacramento del matrimonio protestante, che coinvolge i sacerdoti stessi, si basa su una semplice constatazione che Paolo esplicita: “meglio sposarsi che bruciare”. Meglio cedere al desiderio, e benedirlo, legittimarlo, che ardere tra le fiamme del desiderio inappagato – perché di quel desiderio chissà quali demoni possono impadronirsi… La castità è un dono, ma non tutti i figli di Dio hanno lo stesso dono. Anzi, spiega Paolo, ciascuno di noi  ha ricevuto da Dio il proprio dono particolare. Lo dice anche Zarathustra: fratello se hai una virtù, ed è la tua virtù, non l’hai in comune con nessuno. Così ognuno di noi dovrà servire il proprio dono, assecondare la propria virtù.
L’uomo, la donna non devono temere la gioia, il godimento. “A good husband will make a good wife; a good John a good Joan” si ripeteva nei manuali di preparazione al matrimonio di intonazione protestante. John e Joan o Jane – faccio notare – sono nella vulgata allusioni non troppo grossolane agli organi sessuali maschile e femminile, e con il titolo allusivo di John Thomas e Lady Jane  una delle tre versioni del romanzo uscì in Inghilterra nel 1972.
Niente amour, niente mur, per riprendere il gioco di monsieur Lacan: niente poesia della lontananza, niente sublimazione della distanza. Niente Platone, niente Provenza, niente trovatori, niente dame. L’amore è apoteosi della vicinanza, del contatto. La carne brucia e il suo calore si diffonde nel cervello. E un uomo e una donna sani e forti e giusti godono del sesso, si uniscono nell’orgasmo. Addirittura, giungono a incontrarsi nell’orifizio anale, – per quell’atto fu condannato al rogo il libro – atto in cui il potente fallo celebra la sua massima vittoria, proprio misurandosi con l’aspetto escrementizio di una geografia sessuale, dove il genitale penetra nel luogo della merda, delle scorie, e lo purifica. Così il piacere vincerà sulla vergogna, la vita sulla morte.  E così il fallo si mostrerà in tutta la sua bellezza di agente di conforto, di riconciliazione, di rinascita.
Il rapporto anale, ripeto, fu l’episodio capitale per la censura del romanzo. Intorno ad esso Si giocò l’accusa di oscenità e pornografia. Che si potesse descrivere un rapporto anale, che fosse lecito solo  suggerirlo, visto che in Inghilterra l’atto era proibito perfino a una coppia maritata e consenziente, era impensabile. Inaccettabile. Un reato.
Oggi il dibattito non ci riguarda più. Il tempo passa, e i costumi cambiano. Rimane però un problema. Nel saggio sulla Pornografia, che scrive subito dopo aver concluso il romanzo sulla sua lady, Lawrence più volte ripete che il linguaggio umano deve provarsi a rappresentare il corpo. A dire l’orgasmo. Da quel predicatore di certezze qual è, predica convinto, che c’è qualcosa fuori, oltre il linguaggio, un corpo estraneo. E se lui è scrittore è perché prova a portare questo ‘sconosciuto’ dentro il linguaggio; per esprimerlo… Ma ci riesce? Scrive il sesso? Si può scrivere il sesso?
Come Blake, Lawrence è un uomo posseduto dal genio. Ha un dono, una straordinaria sensibilità a intuire il mistero della vita, l’oscura presenza dell’alterità oltre i confini della coscienza. È questo per lui il significato dell’esperienza sessuale: in essa si mette a fuoco una conoscenza oscura dell’alterità divina, che resta però oscura. È una conoscenza notturna e tattile, la definirei, quella a cui giunge Lawrence, il quale non è affatto un illuminista e non vuole affatto accrescere l’illuminazione, ma acconsente all’oscurità, si sente a casa.
“La mia religione è la credenza che nel sangue, nella carne ci sia una saggezza più grande che nell’intelletto. Possiamo sbagliarci con l’intelletto. Quello che sente il sangue, quello che crede il sangue è sempre vero” – così sentenzia Lawrence. Il quale una cosa “la doveva sentire qui”, come diceva toccandosi il plesso solare.
È una cosa molto più delicata fare l’amore e conquistare con l’amore, che parlare d’amore, afferma. In questo Lawrence è un materialista mistico. Il mondo è qui, nel corpo, en corpsencore. Ma c’è molto che non si vede, e se non si vede, in realtà è perché  è stato rimosso, represso; e quello che appare non è che il frutto di un taglio, un’asportazione che l’uomo  sociale, civile, ha operato per difendersi. E alla fine, conclude con T.S.Eliot che l’uomo a lui contemporaneo non poteva  sopportare “very much reality”.  Né troppa conoscenza, né troppa realtà. È diverso oggi?