Undine
Chiara Mangiarotti (membro SLP/AMP)
Undine, nella versione italiana il titolo è Undine – Un amore per sempre, l’ultimo film (2020) del regista tedesco Christian Petzhold è l’attualizzazione di una fiaba romantica che a sua volta attinge al mito dell’unione impossibile di un essere soprannaturale (Naturwesen) con un mortale. Un mito antichissimo che, come quello delle donne serpenti o donne pesci, parenti strette di Ondina, ritroviamo a diverse latitudini in tutti i tempi, creature fantastiche immortalate in bassorilievi, capitelli, patere, la cui fioritura straordinaria durante il Medioevo orna chiese romaniche e cattedrali gotiche.
In epoca romantica il romanzo Undine (1811) di Friedrich de la Motte Fouquè si ispira ad un trattato di Paracelso, il Liber de nimphis, sylphis, pygmaeis et salamandris, che descrive le ondine come esseri meravigliosi, creature acquatiche abitanti dei laghi, in genere femminili; mortali ma prive di anima che possono ottenere solo unendosi ad un uomo, come accade alle Melusine a cui Paracelso le paragona. E come accade all’Undine del romanzo dove si aggiunge che, se lui l’avesse tradita, lei avrebbe dovuto ucciderlo, avvenimenti che, inutile dirlo, puntualmente si verificano.
Teatro del film è Berlino, città fondata lungo le anse del fiume Spree sulla bonifica di una zona acquitrinosa di cui sono ancora testimonianza i laghi che la costellano – ideale ambientazione per le leggende europee di cui le Ondine sono le protagoniste – come ricorda anche la radice slava del suo nome. Una città con una storia importante relativa all’urbanistica del XIX secolo, in età guglielmina, alla distruzione durante la seconda guerra mondiale, alla ricostruzione e soprattutto alla divisione tra Est e Ovest, un marchio di cui anche l’attuale riunificazione porta il segno.
Le vicende della città sedimentate nel tempo sono lo specchio, da una parte, delle stratificazioni del mito, dall’altra, dell’unione impossibile a cui esso si riferisce. Anche e soprattutto perché l’Undine di Petzhold è una storica, impiegata come freelance al Märkisches Museum dove accompagna i visitatori illustrando la storia di Berlino e le sue origini attraverso un percorso fatto di plastici, modelli bidimensionali e vedute della città di varie epoche. Tutto questo contrasta prepotentemente con la presentazione di Undine con cui si apre il film e in cui, dalla terrazza di un caffè, la sentiamo rivolgere perentoriamente a Johannes, l’uomo che le siede di fronte, le seguenti parole: “Hai detto che mi avresti amata per sempre, non puoi andartene, se mi lasci dovrò ucciderti”. Questo incipit è il segno forte che dà il la ad un mélo cui siamo accompagnati dall’Adagio in re minore, BWV 974, dal concerto per oboe di Alessandro Marcello, reso celebre da un film romantico degli anni ’70, Anonimo veneziano.
Non c’è rapporto sessuale, ce n’è così poco che, afferma Lacan nel seminario R.S.I., vi raccomando la lettura di un bellissimo romanzo, Ondine. Vi vedrete che una donna nella vita dell’uomo è qualcosa a cui egli crede. Crede che ce ne sia una, perfino due o tre, ed è qui l’interessante – non può credere che a una. Crede a una specie, del genere delle silfidi o delle ondine. Cosa vuol dire credere alle silfidi o alle ondine? Vi faccio notare che si dice credere a, e che la lingua francese vi aggiunge anche questo rinforzo – crederci, credere qui. Crederci? Che cosa significa? Se non credere a degli esseri in quanto possono dire qualcosa […] È dire la fragilità di questo crederci, a cui manifestamente si riduce il fatto del non-rapporto sessuale, sul quale non ci sono dubbi, ci sono testimonianze ovunque[1].
Da crederci, continua Lacan, a crederle, il passo è breve, È qui che gioca il tappo – per crederci, le si crede. Si crede a quello che dice. È quello che si chiama l’amore […] Ecco perché si dice correntemente che l’amore è una follia.
Nel film l’amour fou scoppia letteralmente, poco dopo la scena iniziale descritta, tra Undine e un partecipante alla sua visita guidata. I due si incontrano all’interno dello stesso caffè di prima e lo stupore di entrambi li abbraccia in un inciampo in cui si rovescia su di loro un intero acquario che esplode a pezzi schizzando su di loro schegge e pesci rossi. Lei sembra beata e lui incantato dalla sua beatitudine. Indubbiamente, come dice Lacan, c’è qualcosa di comico. Ma è un incanto a cui Christoph, questo è il suo nome, crede e che lo interroga. Per “chi è ingombrato dal fallo” una donna è un sintomo. “I punti di sospensione sono infatti dei punti […] interrogativi nel non rapporto […] Quello che costituisce il sintomo, questo qualcosa che si sbaciucchia con l’inconscio, è che vi si crede”[2]. Credervi vuol dire dunque per l’uomo interrogare il sintomo che quella donna è per lui, interrogarne la particolarità del suo godimento.
Christoph è un palombaro industriale, con Undine visita le profondità lacustri dove lei rischia di perdersi. Lui letteralmente la ri-anima al ritmo di una canzone usata durante il suo addestramento, Stayin’Alive dei Bee Gees. Sembra che Undine stia per conquistare un’anima. Ma. Non ha fatto i conti con il vecchio amante, l’uomo universale – tutti gli uomini si chiamano Hannes, esclama l’Undine di Ingeborg Bachmann – l’uomo che le crede nel senso che vuole vendicarsi delle sue parole, l’uomo che incarna le passioni negative dell’animo umano, l’invidia, la menzogna, il tradimento. L’espediente della sceneggiatura di sdoppiare la figura maschile nell’uomo dell’amore e l’uomo della discordia fa emergere la struttura. Non è per accidente che l’unione tra il portatore di fallo e chi nel fallo c’è-non-tutta perché abitata da un altro godimento, è impossibile. Non c’è rapporto sessuale, Undine è un sogno!